domenica 23 luglio 2017

La mappa non è il territorio.

Avevo dodici anni quando scoprii gli scacchi.  La vecchia scacchiera e la scatola dei pezzi, ambedue dozzinali e di poco prezzo, facevano parte della geografia dell'appartamento, piccolo e sovraffollato, dove viveva la mia famiglia, insieme al centrino a uncinetto sul tavolino a fianco della poltrona in tinello, alla etager piena di ninnoli di ogni tipo, orgoglio di mia madre, e la piccola raccolta di dischi, con la scacchiera utilizzata quale separatore tra i 78 giri di Beniamino Gigli, Claudio Villa ed altre ugole di pregio della canzone italiana, ed i 33 giri di musica classica editi dalla fabbri Editore e comprati ogni mese in edicola, con la scatola dei pezzi sistemata in modo che quei dischi non scivolassero sulla mensola che li ospitava.
Fino a quel momento quei due oggetti non avevano avuto alcuna importanza per me. Li vedevo ogni giorno e non mi importava nulla di loro.  Neanche mi chiedevo a cosa servissero e perché fossero lì.     Esistevano e basta, come tante altre cose.

A quei tempi, con le scuole che riaprivano il primo di ottobre, le estati di un bambino erano lunghe, e calde, e piene di giochi.   Si giocava a ondate, nel senso che i mesi estivi scorrevano scanditi dal passaggio da un gioco all'altro.  C'era il momento delle biglie, quello delle cerbottane e relative battaglie epocali a colpi di bussolotti, quello delle corse in bicicletta e via dicendo.

Ci dedicavamo preferenzialmente al gioco del momento fino ad esserne annoiati e saturi, dopo un paio di settimane, per poi passare ad altro, perché si sa, i ragazzini sono monomaniacali quando si applicano a qualcosa;  è difficile che l'oggetto del loro interesse rimanga centrale veramente a lungo nei loro pensieri, ma quando sono incuriositi ed affascinati da qualcosa la frequentano fino allo sfinimento e poi, non di rado, la gettano a lato, passando oltre e dirigendo la loro attenzione verso altro.


Quello fu l'anno nel quale, del tutto incidentalmente, fui l'agente patogeno che portò il gioco degli
scacchi nella compagnia di scavezzacollo che frequentavo, e a distanza di così tanti anni mi chiedo ancora come fu possibile che un gioco tanto cerebrale riuscisse a conquistare tutti indistintamente, e anche per un bel pezzo.
Tutto cominciò quando mia madre, dovendo pulire la nostra piccola libreria, depose davanti ai miei occhi una pila di libri, sopra alla quale ne vidi uno intitolato ABC degli scacchi, con un re ed una regina stilizzati su una porzione di scacchiera.

Cominciai a leggerlo, mi piaceva la copertina, e in breve mi ritrovai a disporre i pezzi sulla scacchiera e a provare a muoverli più o meno in accordo con quello che leggevo.    Mia madre fu un pochino perplessa, vedendomi così tranquillo, e mio padre ne fu invece compiaciuto.
Qualche giorno dopo uscii di casa con scacchiera e pezzi e trasferii ai miei compagni sia i rudimenti del gioco sia l'arcana voglia di giocarci, e ben presto molti di noi reperirono altre scacchiere, al punto che presto cominciammo ad organizzare una specie di torneo.

Fu praticamente la nostra unica attività per ben più di un mese.  Ci trovavamo la mattina ai giardinetti di Piazza Martini, nel quartiere di Porta Vittoria in una Milano che non esiste più, e giocavamo partite su partite, ovviamente di ben miserabile qualità, ma noi non lo sapevamo e ci divertivamo ugualmente.    Alcuni anziani si fermavano a guardarci, e qualcuno ci diede anche qualche dritta.

Poi la cosa si esaurì ovviamente, e passammo ad altro.  L'anno dopo non vi fu l'ondata scacchi, anche se qualcuno dei miei compagni di scorribande mantenne il contatto col gioco e, anzi, uno divenne poi uno scacchista di un certo valore.

Per parte mia, ad un certo punto mi resi conto di un curioso effetto che la pratica compulsiva del gioco ebbe su di me, quando infatti mi accorsi che concepivo ogni più piccolo movimento, sia mio che degli oggetti che maneggiavo, come se dovesse essere compiuto da un pezzo degli scacchi.  
Se a tavola uno dei miei familiari mi chiedeva di passare il sale, o il cestino del pane, io lo facevo con il movimento ad elle del cavallo, e mi ritrovavo a contare inesistenti caselle entro le quali contenere lo spostamento degli oggetti.

Non è esatto dire che la cosa mi spaventò, e certo non ero allora in grado di elaborare compiutamente il fenomeno, ma in qualche modo non mi piacque ed io non mi riaccostai più al gioco, se non sporadicamente e con una certa riluttanza.

Molti anni dopo tentai di metabolizzare quell'esperienza, e l'inquietante effetto che ebbe su di me, e giunsi a pensare che gli scacchi sono un affascinante gioco di strategia, ma che si tratta di un modello rappresentativo di attività umane il cui reale svolgimento non è confortevolmente schematico come il gioco stesso indurrebbe a pensare.

Forse la ragione per la quale mi ritrassi fu che intuii come fosse possibile perdere il contatto con una realtà abbastanza complessa da risultare talvolta incomprensibile, e come la presunzione, errata, di poter controllare quella realtà tramite una sua inadeguata rappresentazione potesse essere un grossolano peccato di presunzione, tra l'altro non privo di pericolose conseguenze.

Qualcuno potrà pensare che sto drammatizzando eccessivamente, ma io non credo che sia così.   In questi tempi grami, nei quali le magnifiche sorti e progressive non sono più così brillanti come immaginavamo, vedo molta gente rifiutarsi di esporsi alla realtà per come è, preferendo costruirsi un modello a proprio uso e consumo, solo che, come disse Korzybski, la mappa non è il territorio, e se non si è capaci di interiorizzare questo concetto noi possiamo solo soffrire per le cocenti delusioni che ci autoinfliggiamo.

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